venerdì 30 novembre 2018

AZIONE PER I PRECARI DELLA SCUOLA


Il MIUR ha assunto per molti anni personale precario per lo svolgimento di mansioni identiche a quelle di colleghi assunti a tempo indeterminato, assoggettandolo alla reiterazione di plurimi contratti a tempo determinato per un limite spesso superiore alle 36 mensilità. Ciò, a dispetto di quanto statuito dalla normativa europea che prevede la stabilizzazione del dipendente ove il contratto a tempo determinato superi il suddetto termine. 


Invero, forse non tutti sanno che il contratto di lavoro a tempo determinato nasce dalla volontà del legislatore di sopperire ad esigenze produttive ed organizzative temporanee e costituisce un’eccezione alla regola (che è quella – per l’appunto – dell’assunzione con contratto di lavoro a tempo indeterminato). Per questo motivo, la stipula di contratti a termine deve essere soggetta a dei limiti, superati i quali si determina un abuso che, in quanto tale, deve essere sanzionato.

Detta situazione di illegittimità non è sfuggita alla Corte di Cassazione che (pronunciandosi anche a Sezioni Unite) ha stabilito che il pubblico dipendente cui sia stato rinnovato per oltre 36 mesi il contratto a tempo determinato ha diritto al risarcimento del danno. Infatti, una ulteriore conseguenza, data dalla illegittima reiterazione dei contratti, è il danno che si concretizza in capo a ciascun dipendente, danno che deriva dalla circostanza che in questi casi il dipendente, vincolato dalle continue proroghe, resta "prigioniero" del suo stesso contratto a termine, finendo con l’essere "condannato" a vivere una situazione di eterna precarietà, alla quale non sarebbe assoggettato laddove, ad esempio, alla normale conclusione del rapporto di lavoro potrebbe cercare impiego altrove.



Per la tutela dei diritti del dipendente precario è necessario proporre un apposito ricorso presso il Giudice del Lavoro territorialmente competente.

PERCHE’ ADERIRE AL RICORSO?

Il ricorso mira ad ottenere ristoro per i danni subiti a causa della reiterata ed illegittima apposizione del termine contrattuale, unitamente al riconoscimento delle differenze retributive e contributive maturate, nonché alla ricostruzione della carriera e dell’anzianità di servizio.

Il ricorso è individuale (non collettivo), di modo che la situazione di ognuno sia presa nella dovuta considerazione. Per ciascun ricorrente lo studio, attraverso la collaborazione di un consulente del lavoro, provvede alla redazione di conteggi personalizzati circa l’ammontare del credito maturato dal lavoratore.

COSTI

Il ricorso individuale ha costi variabili da 600,00 ad 800,00 euro.

Gli interessati possono scrivere a info@samperisizarrelli-legal.eu e riceveranno tutte le istruzioni dettagliate di adesione.  


martedì 20 febbraio 2018

Buono postale con pfr: rimborsabile a vista

Il cointestatario di buoni postali fruttiferi con clausola “Pfr”, in caso di morte dell’altro intestatario, ha diritto al rimborso del buono senza la quietanza degli altri eredi
Il cointestatario di un buono fruttifero con clausola di pari facoltà di rimborso può riscuotere interamente il buono senza la quietanza congiunta degli eredi del cointestatario premorto poiché la legge prevede espressamente che «i buoni sono rimborsabili a vista presso l’ufficio di emissione» [1].
I buoni postali fruttiferi con clausola “Pfr”, vale a dire con pari facoltà di rimborso sono quei buoni il cui rimborso può essere chiesto da più soggetti. Nella prassi, infatti, accade spesso che un buono postale fruttifero sia cointestato. In questi casi, la clausola negoziale di pari facoltà di rimborso consente a uno dei sottoscrittori di riscuotere l’intero importo con la semplice presentazione del titolo. Ma cosa succede alla morte di uno dei cointestatari del buono postale fruttifero? Il contitolare del buono postale fruttifero potrà riscuotere l’intero titolo?
La risposta è sì: la somma investita in buoni postali fruttiferi con pari facoltà di rimborso va liquidata, più gli interessi, a uno dei cointestatari dopo la morte dell’altro. Tuttavia, nella prassi, non sono affatto rare le ipotesi di ostruzionismo da parte di Poste Italiane.
È noto, infatti, che Poste Italiane, si rifiuti di liquidare il buono postale fruttifero senza la denuncia di successione e senza la quietanza congiunta di tutti gli aventi diritto. La giurisprudenza sul punto, però è di contrario avviso. In proposito una pronuncia del Tribunale di Verona [2] ha dato ragione al proprietario dei titoli, asserendo che la somma investita in buoni fruttiferi postali con clausola “Pfr”, dopo la morte di uno dei cointestatari, va liquidata all’altro in uno agli interessi maturati. E ciò anche se quest’ultimo non presenta la dichiarazione di successione né la quietanza degli eredi del defunto contitolare del buono. In particolare, nel caso di specie, il giudice ha considerato sufficiente una semplice autocertificazione. In simili ipotesi, dunque, può bastare che il cointestatario certifichi, come avvenuto nell’ipotesi all’esame del Tribunale di Verona, che l’altro è morto senza fare testamento e che non si è a conoscenza di possibili eredi aventi causa.
Il medesimo principio è stato confermato dalla Corte d’Appello di Milano con una recente sentenza [3] in cui ha sostenuto che «ai buoni fruttiferi postali con clausola di pari facoltà di rimborso emessi in data antecedente all’entrata in vigore del D.M. del 19.12.2000 debba applicarsi la disciplina contenuta nel D.P.R. n. 156/1973 e nell’art. 208 del regolamento di esecuzione del 1989. In applicazione della suddetta normativa il rimborso del buono fruttifero non è subordinato ad alcuna particolare o specifica modalità di riscossione e consente al portatore e cointestatario del titolo, avvalendosi della clausola di pari facoltà di rimborso, di chiedere a vista all’ufficio postale di emissione il pagamento dell’intero importo del buono, comprensivo degli interessi maturati, senza che sia necessaria, anche nell’ipotesi di altro cointestatario del medesimo buono, la quietanza congiunta degli aventi diritto».
La sentenza della Corte d'Appello di Milano è molto importante in quanto trattasi del primo caso in cui la stessa si pronuncia sull'annosa questione della rimborsabilità a vista del buono postale con clausola Pfr in assenza di quietanza congiunta degli eredi.

Buono postale con Pfr: l'abuso di Poste Italiane

Come detto, troppo spesso gli uffici postali subordinano il rimborso del buono postale fruttifero ad una serie di adempimenti burocratici, quali l’esibizione del certificato di morte del cointestatario, l’apertura delle pratiche di successione e la presenza degli eventuali eredi. Ed infatti, la problematica inerente la liquidazione di buoni postali fruttiferi nel caso di morte di un cointestatario ha aperto un’ampia querelle tra i risparmiatori e Poste Italiane, la quale – in buona sostanza – fa cadere il buono in successione, assoggettandolo ad una sorta di “blocco operativo”, subordinato alla definizione della pratica successoria.
Le richieste di Poste Italiane essenzialmente vengono giustificate sulla scorta di due ordini di considerazioni:
  • di carattere fiscale: comunicare all’Agenzia delle Entrate il subentro degli eredi nel patrimonio del defunto e dunque determinare le imposte dovute su tale passaggio;
  • di carattere successorio: evitare un pregiudizio agli altri coeredi.
Tale condotta però è illegittima e, come anticipato, la giurisprudenza è piuttosto compatta sul punto. Peraltro, il rifiuto di Poste Italiane è causa di gravi danni per il possessore del buono che nella maggior parte dei casi è impossibilitato a reperire tutti gli aventi diritto.

Buono postale fruttifero con clausola “Pfr”

Nel caso di cointestazione, se i buoni postali fruttiferi prevedono la clausola «Pfr» cioè la facoltà di pari rimborso, ciascuno dei cointestatari ha piena facoltà di compiere operazioni anche separatamente dall’altro [4] e, quindi, di riscuotere il titolo per intero «a vista» e senza l’espletamento di alcuna formalità, se non l’esibizione di un valido documento di riconoscimento da parte del richiedente, nonché quella del titolo in originale.
Le Poste, pertanto – nel rispetto delle norme sui titoli di credito nominativi – non possono in alcun modo condizionare il pagamento del buono nei confronti del cointestatario, il quale invece deve vedersi riconosciuto il diritto menzionato nel titolo, per effetto dell’intestazione in esso contenuta a suo favore [5]. 

Buono postale con pfr: la morte di un cointestatario

Le cose non cambiano o almeno non dovrebbero cambiare nel caso di morte di uno dei cointestatari. In tale ipotesi, infatti, l’ufficio postale non può richiedere al superstite alcuna documentazione (certificato di morte, denunzia di successione, presenza degli eredi) legata al decesso dell’altro, ma è tenuta a pagare al richiedente – accertatane l’identità – l’importo risultante dal titolo unitamente agli interessi maturati.
La clausola Pfr attribuisce, dunque, al possessore del titolo un diritto esercitabile in modo autonomo, fatta salva la facoltà degli eredi di chiedere giudizialmente (ove la pretesa sia fondata) la restituzione della propria quota nei confronti di chi l’abbia integralmente riscossa. In altre parole, la successione degli eredi di uno dei cointestatari non può escludere o limitare i diritti dei terzi come pure quelli del contitolare superstite (che ben potrebbe, tra l’altro, non essere un erede), il quale ha pieno diritto di ottenere dalle poste il rimborso del titolo in modo del tutto autonomo.
Alla luce di quanto detto, può dirsi che la clausola negoziale «pari facoltà di rimborso» [6] consente a uno dei sottoscrittori di riscuotere l’intero importo con la semplice presentazione del titolo anche dopo la morte dell’altro. Eventuali comportamenti ostruzionistici di Poste Italiane sono illegittimi. Ciascun cointestatario può, dunque, agire per ottenere la riscossione dell’intero credito e Poste Italiane dovrà rimborsare al cointestatario tutto l’importo previsto senza pretendere l’adesione dei coeredi del defunto. Ciò è quanto emerge da una recente sentenza pubblicata dalla sezione civile del Giudice di Pace di Piacenza (Magistrato onorario Ljdia Bruno) sulla scorta di precedenti simili già pronunciati sia dai tribunali [7] che dalla Corte di Cassazione [8].





[1] Art. 208, D.P.R. n. 256/1989.
[2] Trib. Verona, sez. Terza, ord. del 24.11.2017.
[3] Corte Appello di Milano, sent. del 25.10.2017.
[4] Art. 1 comma 4 D.M. 19.12.2000.
[5] Art. 2021 Cod. Civ.
[6] Questo discorso – è bene sottolinearlo – non vale con riguardo a quei buoni postali cointestati in cui manca la clausola Pfr e che, al contrario, consentono di esercitare i diritti derivanti dal titolo solo in maniera congiunta.
[7] Cfr. Giudice di pace di Savona, sent. n. 559/15; Trib. Roma, sent. del 8.07.14; Trib. Novara, sent. del  05.04.2014, Trib. Sassuolo, sent. del 12.02.2013, Trib. Cosenza, sent. del 31.01.2011.
[8] Cass. sent. n. 12385 del 03.06.2014; Cass. sez. un. sent. n. 13979/07.



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venerdì 2 febbraio 2018

Chi si licenzia ha diritto alla disoccupazione?


Naspi: il lavoratore che si licenzia ha diritto all’indennità di disoccupazione solo se si è dimesso per giusta causa

Può succedere di non riuscire più a tollerare il rapporto di lavoro alle dipendenze del proprio datore, da qui la drastica decisione di licenziarsi. Tuttavia, non è sempre facile trovare un altro impiego; di conseguenza, oltre alla paura di non riuscire a trovare un altro lavoro vi è quella di restare senza soldi. In queste ipotesi la domanda che più spesso ci si pone è la seguente: chi si licenzia ha diritto alla disoccupazione? La risposta è: dipende. Ed infatti, quando il lavoratore si licenzia (in verità, è più corretto dire “si dimette”, essendo il licenziamento l’atto tipico del datore di lavoro) le motivazioni alla base di tale scelta possono essere le più disparate. Tuttavia, solo se il dipendente si è dimesso per giusta causa avrà diritto all’assegno di disoccupazione; diversamente non gli sarà erogato alcun sussidio. Dunque, il dipendente che si licenzia potrà percepire la Naspi solo a condizione che le dimissioni siano avvenute per “giusta causa”. Vediamo, allora, quando sussiste una giusta causa di dimissioni e quando, di conseguenza, il dipendente che si licenzia ha diritto all’indennità di disoccupazione.

Quando sussiste una giusta causa di dimissioni

Come anticipato, quando il lavoratore si dimette le motivazioni alla base di tale scelta possono essere le più disparate. Sul punto, però, è possibile operare una distinzione fondamentale. Ed infatti, la situazione di chi si licenzia per motivi o valutazioni personali (quali, ad esempio, la volontà di cercare un posto di lavoro migliore) è diversa da quella del collega  costretto a dimettersi per via di circostanze che si riflettono negativamente su di lui e che rendono non più proseguibile il rapporto di lavoro; in tali casi il dipendente è di fatto obbligato a dimettersi per non subire un’ingiustizia. Ebbene, solo in quest’ultimo caso le dimissioni danno diritto all’ottenimento dell’assegno assistenziale dell’Inps (attualmente si chiama Naspi). In altre parole, non sempre se il dipendente si licenzia prende la disoccupazione: ne ha diritto solo quando la sua scelta è dettata dalla necessità di evitare un’ingiustizia ai suoi danni, vale a dire solo quando sussiste una giusta causa di dimissioni [1].

Dimissioni: quando spetta la disoccupazione

Ebbene, sulla base di quanto finora indicato dalla giurisprudenza e dall’Inps [2], si considerano “per giusta causa” le dimissioni determinate:
  • dal mancato pagamento dello stipendio [3];
  • dall’aver subito molestie sessuali nei luoghi di lavoro;
  • dalle modificazioni peggiorative delle mansioni lavorative;
  • dal mobbing, ossia in caso di crollo dell’equilibrio psico-fisico del lavoratore a causa di comportamenti vessatori da parte dei superiori gerarchici o dei colleghi (spesso, tra l’altro, tali comportamenti consistono in molestie sessuali o “demansionamento”, già previsti come giusta causa di dimissioni).
  • dalle notevoli variazioni delle condizioni di lavoro a seguito di cessione ad altre persone (fisiche o giuridiche) dell’azienda;
  • dallo spostamento del lavoratore da una sede ad un’altra, senza che sussistano le “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”;
  • dal comportamento ingiurioso posto in essere dal superiore gerarchico nei confronti del dipendente.

Dimissioni: a cosa ha diritto il lavoratore?

Il lavoratore che dà le dimissioni per giusta causa ha diritto:
  • all’indennità sostitutiva del preavviso;
  • a richiedere l’indennità di disoccupazione.

A quali condizioni, se mi licenzio, prendo la disoccupazione?

In aggiunta alla perdita involontaria dell’occupazione, occorre che il lavoratore sia in possesso, congiuntamente, dei seguenti requisiti:
  • stato di disoccupazione involontaria;
  • almeno 13 settimane di contribuzione nei 4 anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione;
  • 30 giornate di lavoro effettivo, a prescindere dal minimale contributivo, nei 12 mesi che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione.

Come ottenere la disoccupazione in caso di dimissioni

Alla luce di quanto detto, il riconoscimento dell’indennità di disoccupazione potrà avvenire soltanto a condizione che il lavoratore si sia dimesso per giusta causa.  Vediamo, allora, come fare per ottenere la disoccupazione in caso di dimissioni per giusta causa.
Il lavoratore interessato, per rendere esigibile il diritto, deve presentare all’Inps una domanda corredata da una dichiarazione in autocertificazione da cui risulti:
  • l’essersi dimesso per giusta causa;
  • la volontà di agire in giudizio contro il comportamento illecito subito;
  • qualsiasi documento che dimostri tale volontà (diffida, denuncia, istanza al giudice del lavoro ecc.);
  • l’impegno a comunicare all’Inps l’esito della controversia, sia che avvenga in sede extragiudiziale (conciliazione in sede amministrativa o sindacale) o giudiziale (sentenza del giudice).
Fino alla conclusione del contenzioso, l’erogazione dell’indennità deve considerarsi provvisoria; in caso di esito favorevole al lavoratore l’indennità viene confermata; mentre in caso contrario – se cioè non fosse riconosciuta la sussistenza della “giusta causa” – il lavoratore dovrà rimborsare all’Inps quanto percepito.
Pertanto è necessario che ci sia una particolare attenzione da parte del lavoratore alla fase di stesura delle dimissioni, all’avvio della vertenza e al momento di una eventuale conciliazione in sede sindacale o presso la Direzione Provinciale del Lavoro. In questa ultima ipotesi, il verbale deve contenere l’esplicito riferimento alla particolare motivazione della vertenza quale presupposto e causale dell’accordo conciliativo, in modo da non pregiudicare il diritto del lavoratore all'indennità.

note

[1] Cfr. Art. 2119 Cod. Civ.
[2] Cfr. Circolare Inps n. 163 del 20.10.2003.
[3] Cfr. da ultimo, Corte d’Appello Milano, sent. n. 1713/2017.

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Adsl non funziona: spetta il risarcimento del danno esistenziale


In caso di Adsl non funzionante, l’utente ha sempre diritto al rimborso. In alcuni casi spetta anche il risarcimento del danno esistenziale. Vediamo quando
Ormai senza internet non si può fare nulla. Ciascuno di noi trascorre gran parte della propria vita on line. E ciò non solo per essere informati su tutto o – come spesso avviene – per socializzare con amici lontani e vicini. Internet è diventato uno strumento vitale soprattutto per lavorare. Avere una connessione a internet lenta o che non funziona come dovrebbe è fonte di disagi seri e di condizionamenti talvolta insopportabili. E se ciò è vero per le utenze domestiche, figuriamoci quali possano essere i danni per le utenze delle aziende nel caso in cui l’adsl dovesse smettere di funzionare. Ebbene, in caso di Adsl non funzionante o di connessione lenta è sempre possibile chiedere un rimborso. Ma non è tutto: in caso di disservizio, oltre alla compensazione patrimoniale, scatta anche il danno esistenziale.  Di tanto parleremo in questo articolo. Vediamo, dunque, come richiedere il rimborso per l’Adsl non funzionante, a cosa si ha diritto se la connessione a internet non funziona o è troppo lenta e quando scatta il danno esistenziale. Su tale ultimo aspetto, infatti, è stata di recente emessa un’interessantissima sentenza. Procediamo con ordine.

Adsl non funzionante: cosa fare

Si tratta purtroppo di un’esperienza fin troppo comune e davvero insopportabile: pagare per un servizio che poi si rivela non all’altezza. Non solo delle proprie aspettative, ma anche di quello che ci avevano promesso. Presentata dalla società telefonica come la “connessione perfetta”, nella realtà dei fatti si è rivelata tutt’altro. Ebbene, in questo caso è possibile chiedere un rimborso per l’Adsl che non funziona come dovrebbe.  Ed infatti, se la società telefonica ha promesso una determinata velocità di navigazione per il tramite di una  pubblicità trasmessa in tv, alla radio o pubblicata su giornali e depliant e tali standard di navigazione sono stati poi ribaditi al momento della firma del contratto, la velocità “promessa” deve essere necessariamente garantita al cliente. Non ci sono “scuse” che tengono. Al contrario, quando si riesce a contattare un operatore (talvolta dopo diversi tentativi che spazientirebbero chiunque) spesso ci si sente rispondere proprio con delle scuse: rallentamenti dovuti all’eccesso di traffico, colpa dell’elevato numero di utenze nella zona, ecc. Non è raro, poi, che l’operatore cerchi di far credere che è l’utente a non essere in grado di far funzionare le cose e che, al contrario, alla compagnia telefonica risulta che il funzionamento e la velocità di navigazione non presentano alcun problema. Ora, chi si sente “lievemente preso in giro” potrebbe non avere tutti i torti e se la parola dell’operatore non ispira particolare fiducia, è bene sapere che esistono moltissimi strumenti per far valere le proprie ragioni, tra cui anche il rimborso. La prima cosa da fare in questi casi è “minacciare” di cambiare operatore. Ciò renderà sicuramente l’iter di rimborso più veloce. Ciò in quanto a nessuno piace che i clienti scappino via, soprattutto in settori in cui c’è molta concorrenza.

Adsl non funzionante: come chiedere il rimborso?

Prima di chiedere il rimborso per l’Adsl non funzionante è necessario presentare un formale richiamo all’operatore telefonico via telefono, via fax o email. Entro 45 giorni il cliente ha diritto ad un riscontro da parte della compagnia telefonica. Se la risposta non arriva entro i tempi stabiliti si potrà avviare una procedura di contestazione per chiedere il rimborso. Questa procedura è gratuita e fattibile in prima persona dal cliente senza bisogno di un avvocato. In particolare, per la domanda di rimborso ci si deve rivolgere all’Autorità garante per le Comunicazioni (l’Agcom). Dunque, sarà l’Agcom, che accogliendo il ricorso, dovrà stabilire il rimborso per l’Adsl non funzionante o lo storno degli importi dovuti o, ancora, in base ai diversi casi, un indennizzo o un rimborso spese.

Adsl non funzionante: che rimborso spetta?

In caso di Adsl non funzionante spetterà un indennizzo diverso e con tempistiche differenti a seconda dell’operatore. Analizziamo i vari casi.

Rimborso Tim-Alice

Se l’operatore è Tim-Alice questo è tenuto alla riparazione del guasto entro 2 giorni successivi al reclamo (a tal fine chiamare il 187), in assenza dovrà riconoscere:
  • 5 euro di indennizzo al giorno per i servizi flat o semiflat;
  • 2 euro al giorno per i servizi di connettività a consumo.

Rimborso Vodafone

Vodafone, invece, è tenuto a riparare il guasto (la segnalazione va fatta al numero 190) entro 3-5 giorni lavorativi altrimenti è previsto un rimborso di 10 euro al giorno per ogni giorno di ritardo (massimo 50 euro in caso di assenza di linea per disservizio).

Rimborso Infostrada

Per  Infostrada il numero di riferimento è il 155.  Le riparazioni devono avvenire entro 4 giorni dal reclamo, in mancanza l’operatore riconoscerà un indennizzo di 5,16 euro al giorno fino ad un massimo di 100 euro.

Rimborso Fastweb

Con Fastweb l’operatore si impegna a riparare il guasto entro 72 ore dal reclamo altrimenti riconoscerà al cliente un indennizzo di 5 euro al giorno per un massimo di 10 giorni. Il cliente Fastweb che vuole chiedere un rimborso per l’Adsl non funzionante può chiamare il numero 192193, attivo tutti i giorni e a qualsiasi ora, oppure inviare un’e-mail dalla MyFastPage (l’area clienti del sito Fastweb) nella sezione «assistenza clienti». L’utente riceverà un sms di conferma della segnalazione ricevuta.

Rimborso Tiscali

Per Tiscali il numero di riferimento è il 130. L’operatore garantisce la riparazione del guasto entro 4 giorni lavorativi. È possibile chiedere, sempre tramite il servizio di assistenza, il rimborso per i giorni in cui la connessione ad Internet è rimasta interrotta.

Adsl non funziona: quando scatta il danno esistenziale

In alcuni casi il rimborso potrebbe manifestarsi del tutto insufficiente al fine di compensare il grave danno subito. Si pensi ad un’azienda con utenza Adsl Business: privarla di internet e, dunque, di una connessione significherebbe isolarla dal mondo, pregiudicarla nello svolgimento delle relazioni sociali e danneggiarla nella propria immagine e capacità di relazione. Ed infatti, se non avere una connessione funzionante è già grave per le utenze domestiche, figuriamoci cosa possa significare per chi con internet ci conclude affari di lavoro. Ebbene, in questi casi, oltre alla compensazione patrimoniale, scatta in automatico anche il risarcimento per il danno esistenziale subito. Ma non è tutto: il danno esistenziale, in questi casi, va risarcito anche se non risulta provato nel suo importo e nel suo ammontare. Come detto, infatti, il risarcimento è automatico o, per dirla in termini più giuridici, è in re ipsa. Ad affermarlo è stato il Giudice di Pace di Grosseto con una recentissima sentenza [1dalla quale può rinvenirsi principio di diritto che segue.
Oltre al danno patrimoniale deve essere liquidato – sia pure in via equitativa – il danno esistenziale, vale a dire il  turbamento ingenerato nell’utente in seguito al mancato funzionamento della linea Adsl (isolata, nel caso di specie, per 5 giorni), dovendosi ritenere che dalla disattivazione del servizio consegua in re ipsa (cioè automaticamente) un effetto pregiudizievole nello svolgimento di relazioni sociali, essendo impedita o quanto meno resa difficile l’attività professionale dell’utente, il quale risulta pregiudicato nell’immagine e nella capacità di relazione. Nel caso in esame, il Giudice –  a fronte di un disservizio durato 5 giorni ai danni di un’utenza business – ha stabilito un risarcimento pari a 570 euro, di cui 500 a titolo di danno esistenziale.
 [1Giudice di Pace di Grosseto, sent. n. 75 del 18.12.2017 (Magistrato onorario Vincenzo Colantuoni Romagnoli). 
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martedì 30 gennaio 2018

Lavoro domestico: tutto quello che c'è da sapere

Breve guida sul lavoro domestico, dalle tipologie di assunzione all'orario di lavoro, dal periodo di prova ai documenti necessari per l’assunzione
A quale livello va inquadrata la collaboratrice domestica? Che orario di lavoro deve rispettare? Quanti giorni di ferie le spettano? Quanto va pagata? Con questa breve guida cercheremo di rispondere a questi e a numerosi altri quesiti, parlando di tutto quello che c’è da sapere in ordine al lavoro domestico.

Lavoro domestico: il rapporto

Il rapporto di lavoro domestico ha per oggetto una prestazione continuativa rivolta alle esigenze della vita familiare di un datore di lavoro singolo, di un gruppo familiare o di una comunità religiosa o militare. Il prestatore di lavoro è un soggetto in età da lavoro, che abbia compiuto cioè 16 anni di età e abbia assolto l’obbligo scolastico. La legge definisce gli addetti ai servizi domestici come i «lavoratori di ambosessi che prestano a qualsiasi titolo la loro opera per il funzionamento della vita familiare sia che si tratti di personale con qualifica specifica, sia che si tratti di personale adibito a mansioni generiche».
Il lavoro domestico nella sua formulazione più diffusa è di carattere subordinato, ma nulla esclude che lo stesso si atteggi nella forma del lavoro autonomo. In questi casi i caratteri distintivi devono essere ricercati nell’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro.
Le mansioni del lavoratore domestico sono ampiamente indicate nel Ccnl lavoro domestico del 2007. Generalmente sono esclusi quali prestatori di lavoro domestico subordinato i soggetti legati da vincolo di parentela, affinità e di coniugio. Il contratto di lavoro, prevede quattro livelli di inquadramento in base alle mansioni svolte e ad ogni livello corrispondono due parametri retributivi: uno normale e uno superiore. Ciascun livello corrisponde ad un salario minimo, variabile a seconda che i collaboratori siano conviventi o meno con la famiglia.

Lavoro domestico: il periodo di prova

Il Ccnl del lavoro domestico prevede la possibilità di un periodo di prova normalmente retribuito. Durante il periodo di prova ambedue le parti possono recedere dal contratto, in forma scritta, senza motivazione e senza il termine di preavviso. Superato il periodo di prova, il prestatore di lavoro deve intendersi confermato e il periodo viene computato a tutti gli effetti contrattuali.


Lavoro domestico: la tredicesima

Oltre alla retribuzione mensile, ai lavoratori domestici spetta anche la tredicesima, vale a dire una mensilità aggiuntiva da corrispondere entro il mese di dicembre. Per prestazioni inferiori all’anno la tredicesima è corrisposta in proporzione ai mesi lavorati. Il calcolo della tredicesima per colf, badanti e per tutti i lavoratori domestici viene effettuato sulla base della retribuzione globale di fatto percepita durante l’anno.

Lavoro domestico: l'orario di lavoro

La durata normale dell’orario di lavoro è quella concordata tra le parti, nel rispetto dei seguenti limiti:
  • massimo 10 ore giornaliere non consecutive, per un totale di 54 ore settimanali per i lavoratori conviventi;
  • massimo 8 ore giornaliere non consecutive, per un totale di 40 ore settimanali, distribuite su cinque o sei giorni per i lavoratori non conviventi.
Si possono anche stipulare contratti con numero inferiore di ore, ma in quel caso per i collaboratori non conviventi la paga mensile varia in base al numero di ore, mentre per i collaboratori conviventi la paga rimane fissa anche al variare delle ore contrattuali, ma i contributi vengono calcolati in base alle ore lavorative.


Lavoro domestico: i riposi settimanali

In ordine ai riposi settimanali va detto che al collaboratore convivente spettano 36 ore settimanali di riposo così distribuite: 24 ore nella giornata di domenica e le rimanenti 12 in qualsiasi altro giorno della settimana concordato tra le parti. Il lavoratore domestico matura 26 giorni di ferie per ogni anno di servizio, a prescindere dall’orario di lavoro. Le ferie sono un diritto irrinunciabile e devono essere usufruite, non possono essere indennizzate, tranne in caso di risoluzione del rapporto di lavoro. Il lavoratore convivente ha inoltre diritto sia al vitto che all’alloggio, mentre quello che presta servizio per 6 o più ore ha diritto solo al pasto. Qualora il datore non provveda direttamente al vitto o all’alloggio, al collaboratore dovrà essere corrisposta un’indennità sostitutiva. I collaboratori domestici non conviventi, invece, hanno diritto a 24 ore  settimanali di riposo da godere nel giorno stabilito dalle parti nella lettera di assunzione.


Lavoro domestico: la contribuzione

Il datore di lavoro è tenuto a versare all’Inps i contributi previdenziali del collaboratore domestico. Il versamento deve essere effettuato entro i primi 10 giorni del trimestre successivo a quello di riferimento.


Lavoro domestico: i documenti necessari per l’assunzione

Per la formalizzazione di un rapporto di lavoro domestico, il lavoratore al momento dell’assunzione deve consegnare:
  • documento di identità (carta di identità, passaporto, patente);
  • codice fiscale;
  • se il lavoratore è extracomunitario deve possedere il permesso di soggiorno (motivi di lavoro non stagionale, motivi familiari, motivi di studio);
  • documenti assicurativi e previdenziali;
  • tessera sanitaria e ogni altro documento comprovante l’idoneità al lavoro;
  • eventuali diplomi o attestati specifici;
  • eventuali referenze di precedenti datori di lavoro.
Va precisato che responsabile del mancato controllo dell’autenticità dei documenti del lavoratore extracomunitario è il datore di lavoro.





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