Il
problema della pubblicità on line
costituisce il nodo centrale della modernizzazione
dell’Avvocatura.
Con
la modifica dell’art. 35 del Codice
Deontologico Forense [1], gli Avvocati – nel rispetto dei principi della dignità
e del decoro della professione – sono (finalmente) diventati liberi di "farsi
pubblicità" sul web, ma non è stato sempre così.
Sino
a non molto tempo fa, infatti, l’avvocato che si auto-sponsorizzava non era
visto di "buon occhio". Pubblicizzare
la propria attività significava – secondo alcuni – svenderla, mercificarla,
svilirla.
Nel
1990 Edilberto Ricciardi – ricordato da molti come il "giurista del rigore" - scrisse che «il divieto di propaganda costituisce un principio deontologico importante diretto a sottolineare la particolare dignità della professione
forense che non è equiparabile ad una qualunque attività di servizi» [2].
Si
riteneva, forse con una punta di "snobismo",
che la professione forense fosse troppo "intellettualmente pregiata"
per essere oggetto di propaganda popolare.
Si
consideri, inoltre, che all’epoca non esistevano né gli smartphone, né i social
network. La tecnologia non aveva ancora preso il sopravvento e la carta andava
per la maggiore. Gli avvocati, quindi, per "sponsorizzarsi" erano
soliti predisporre delle lettere per poi diffonderle. Facile intuire che detta
attività "propagandistica" era posta in essere soprattutto da chi non
aveva alle spalle uno "studio a conduzione familiare" già avviato e
doveva cercare in qualche modo di accaparrarsi dei clienti.
Tale
modus operandi – tuttavia - fu
fortemente osteggiato dal Consiglio Nazionale Forense, il quale ebbe a dire
che: «il ripudio di mezzi pubblicitari di ogni genere costituisce tradizione
e vanto dell’Avvocatura italiana,
che nel corso di decenni ha sempre confermato il rifiuto di forme di emulazione diverse da una dignitosa gara di meriti dimostrati
attraverso le opere e lo studio» [3].
Leggendo
quanto sopra una cosa risulta chiara: di sicuro l’avvocato non era visto come "un
soggetto imprenditorialmente evoluto". Era dipinto, piuttosto, come una
figura posta dietro ad una scrivania, piegato sulle sue sudate carte.
Un
Leopardi del foro praticamente.
Comprendere,
poi, come quelle carte potessero arrivare sulla scrivania restava un mistero!
Eh
sì … perché per avere tra le mani delle carte sulle quali far trapelare la
propria scienza forense, sono necessari – a monte – dei clienti che le
forniscano.
Ricercare
i clienti attraverso più o meno velate forme di auto-propaganda però era
vietato, con il risultato che le chances
di successo per un giovane avvocato erano direttamente proporzionali al numero
di generazioni forensi che lo precedevano !!!
Per
fortuna con il passare del tempo, il tradizionale atteggiamento di chiusura
dimostrato dall’ordinamento professionale italiano si è andato via via
smorzando e da una posizione restrittiva [4]
che vietava recisamente qualsiasi forma di pubblicità dell’attività
professionale si passò al concetto di
pubblicità informativa [5].
L’impostazione
del Codice Deontologico cominciava a mutare: se prima si parlava di divieto di
qualsiasi forma di pubblicità, in seguito si cominciarono ad indicare tutta una
serie di informazioni che l’avvocato poteva fornire circa l’esercizio della propria attività.
Ebbene,
nonostante fossero stati fatti numerosi passi in avanti, per alcuni la
pubblicità dell’avvocato continuava ad essere considerata una indecorosa attività mercantile, tanto
che nel 2012 il Consiglio Nazionale Forense si rese autore di un clamoroso
passo in dietro.
Con
la riforma dell’ordinamento professionale forense [6], infatti, si esclusero i prezzi
dalle informazioni che il legale poteva liberamente fornire al pubblico.
L’avvocato,
in altri termini, poteva esplicitare in quali campi del diritto fosse specializzato, ma
non poteva assolutamente pubblicizzare i costi.
Tale
tentativo di ritorno al passato non riuscì e l’atteggiamento di chiusura dimostrato
dal Consiglio Nazionale Forense, fu sanzionato anche dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato [7].
Ed
infatti, tutti sanno che l’economia è al centro di ogni valutazione. Per concorrere
sul mercato è necessario promuoversi e per farlo è necessario parlare anche del
"vile denaro".
La
natura restrittiva della posizione assunta dal CNF verso la pubblicità dell’avvocato
si poneva, inoltre, in aperto contrasto con i principi comunitari della concorrenza e del libero mercato [8], di
talché l’Antitrust multò pesantemente il CNF [9] e la condanna (benché pecuniariamente ridotta) fu poi
confermata sia dal TAR [10] che dal
Consiglio di Stato [11].
Dopo
la sanzione, il Consiglio Nazionale Forense
- quasi costretto ad adeguarsi ai tempi che corrono – ha adottato il
nuovo testo dell’art. 35 del Codice Deontologico Forense.
Attualmente
le norme che disciplinano la pubblicità dell’avvocato sono – principalmente – l’art.
17 e l’art. 35 del Codice Deontologico.
L’art.
17, rubricato «Informazione
sull’esercizio della professione» dispone quanto segue:
- È consentita
all’avvocato, a tutela dell’affidamento della collettività,
l’informazione sulla propria attività professionale, sull’organizzazione e
struttura dello studio, sulle eventuali specializzazioni e titoli
scientifici e professionali conseguiti.
- Le informazioni
diffuse pubblicamente con qualunque mezzo, anche informatico,
debbono essere trasparenti, veritiere, corrette, non equivoche, non
ingannevoli, non denigratorie o suggestive e non comparative.
- In ogni caso le
informazioni offerte devono fare riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione
professionale.
Prima
della citata riforma, l’art. 35 rubricato «dovere di corretta informazione»
conteneva due commi (il nono ed i decimo) del seguente tenore:
- L’avvocato può
utilizzare, a fini informativi, esclusivamente i siti web con domini propri senza
reindirizzamento, direttamente riconducibili a sé, allo studio legale
associato o alla società di
avvocati alla quale partecipi, previa comunicazione al Consiglio
dell’Ordine di appartenenza della forma e del contenuto del sito stesso.
- L’avvocato è
responsabile del contenuto e della sicurezza del proprio sito, che non
può contenere riferimenti commerciali o pubblicitari sia mediante l’indicazione diretta che mediante strumenti di collegamento
interni o esterni al sito.
I
commi in parola limitavano di fatto le possibilità dell’avvocato di "farsi
pubblicità" sul web, in quanto gli unici siti utilizzabili erano quelli
con domini propri e senza reindirizzamento.
A
livello pratico, ciò comportava il divieto assoluto per l’avvocato di "sponsorizzarsi"
sui social network. L’unica cosa che il legale poteva fare era pubblicare i
contenuti afferenti alla propria attività professionale sul proprio sito web.
Non
era possibile "postare" detti contenuti su facebook, twitter o
linkedin. In tal modo, infatti, l’avvocato avrebbe utilizzato un sito web
avente un dominio diverso dal proprio ed appartenente alla società esterna
titolare del social network. Non era possibile nemmeno "creare dei link",
atteso che così facendo si dava luogo al vietato "reindirizzamento"
del post.
Con
la riforma questi due commi sono stati abrogati ed attualmente l’art. 35 del
codice deontologico statuisce che:
- L’Avvocato che dà informazioni sulla propria attività
professionale, quali che siano i mezzi utilizzati per rendere le stesse, deve
rispettare i doveri di verità , correttezza, trasparenza,
segretezza e riservatezza, facendo in ogni caso riferimento
alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale.
- L’avvocato non
deve dare informazioni comparative con
altri professionisti né equivoche,
denigratorie, suggestive o che contengano riferimenti titoli , funzioni o incarichi non inerenti all’attività
professionale.
È
scomparso, dunque, ogni riferimento al tipo di sito web (con o senza
reindirizzazione,) con conseguente via libera alla pubblicità sui social
network e alla vendita di banner pubblicitari sul proprio sito.
Ciò detto, bisogna pur ammettere che se si dà agli avvocati – personalità quasi sempre eccentriche e
talvolta prive di scrupoli – la piena libertà di auto-proclamarsi in rete il risultato potrebbe essere anche
disastroso.
In
Italia non siamo ancora giunti a manifestazioni simili a quella di un avvocato
tedesco, che ha ben pensato di pubblicizzare il proprio studio con una clip
horror (ove la moglie uccideva il marito con a sega elettrica) e la cui
scritta finale recitava «con un avvocato matrimonialista non sarebbe mai
successo».
Ci
è stato, però, chi, indicando tra i propri settori di attività quello degli
incidenti mortali, si è proposto di assistere i propri clienti anticipando o
rimborsando tutte le spese funerarie.
Ora,
vero è che la libertà di espressione è tutto. Non si dimentichi però che il
nuovo comma 9 dell’art. 35 richiama
espressamente – quali pietre miliari dell’Avvocatura – la dignità e il decoro
della professione, il cui rispetto è imprescindibile.
[1] Cfr. Delibera del Consiglio Nazionale
Forense approvata il 22 gennaio 2016 (Gazzetta Ufficiale n. 102 del 3 maggio
2016) in vigore dal 2 luglio 2016.
[2] RICCIARDI, Lineamenti
dell’ordinamento professionale forense, 1990, p. 335.
[3] Consiglio
Nazionale Forense, sentenza n. 56 del 23 aprile 1991.
[4] L’art.
17 del Codice Deontologico Forense vigente nel 1997 vietava recisamente
qualsiasi forma di pubblicità per l’avvocato.
[5] L’evoluzione
della normativa italiana in tal senso cominciò nel 2002.
[6] Legge
n. 247 del 31 dicembre 2012.
[7] Il
leading case che vide contrapposti
Consiglio Nazionale Forense e l’Autorità Garante della Concorrenza e del
Mercato è il noto Caso Amica Card.
[8] Art.
101 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea.
[9] Con
il provvedimento n. 25154 del 22 ottobre 2014 l’Autorità Garante della
Concorrenza e del Mercato ha statuito che la condotta del CNF è stata
perpetrata in aperta violazione dell’art. 101 del TUF, «mirando ad
inibire l’impiego di un nuovo canale di diffusione delle informazioni relative
all’attività professionale, anche stigmatizzando l’offerta di servizi
professionali incentrata sulla convenienza economica» ed in seguito a
ciò ha ritenuto applicabile al CNF una sanzione amministrativa pecuniaria di €
912.536,40.
[10] TAR,
sent. n. 8778 del 01.01.2015.
[11] CdS,
sent n. 1164 depositata il 22.03.2016.
Studio Legale Samperisi&Zarrelli
Produzione Riservata
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