domenica 26 marzo 2017

Legali "on line": l’avvocato può farsi pubblicità in rete?


Il problema della pubblicità on line costituisce il nodo centrale della modernizzazione dell’Avvocatura.

Con la modifica dell’art. 35 del Codice Deontologico Forense [1], gli Avvocati – nel rispetto dei principi della dignità e del decoro della professione – sono (finalmente) diventati liberi di "farsi pubblicità" sul web, ma non è stato sempre così.

Sino a non molto tempo fa, infatti, l’avvocato che si auto-sponsorizzava non era visto di "buon occhio". Pubblicizzare la propria attività significava – secondo alcuni – svenderla, mercificarla, svilirla.

Nel 1990 Edilberto Ricciardi – ricordato da molti come il "giurista del rigore" - scrisse che «il divieto di propaganda costituisce un principio deontologico importante diretto a sottolineare la particolare dignità della professione forense che non è equiparabile ad una qualunque attività di servizi» [2].
Si riteneva, forse con una punta di "snobismo", che la professione forense fosse troppo "intellettualmente pregiata" per essere oggetto di propaganda popolare.
Si consideri, inoltre, che all’epoca non esistevano né gli smartphone, né i social network. La tecnologia non aveva ancora preso il sopravvento e la carta andava per la maggiore. Gli avvocati, quindi, per "sponsorizzarsi" erano soliti predisporre delle lettere per poi diffonderle. Facile intuire che detta attività "propagandistica" era posta in essere soprattutto da chi non aveva alle spalle uno "studio a conduzione familiare" già avviato e doveva cercare in qualche modo di accaparrarsi dei clienti.
Tale modus operandi – tuttavia -  fu fortemente osteggiato dal Consiglio Nazionale Forense, il quale ebbe a dire che: «il ripudio di mezzi pubblicitari di ogni genere costituisce tradizione e vanto dell’Avvocatura italiana, che nel corso di decenni ha sempre confermato il rifiuto di forme di emulazione diverse  da una dignitosa gara di meriti dimostrati attraverso le opere e lo studio» [3].

Leggendo quanto sopra una cosa risulta chiara: di sicuro l’avvocato non era visto come "un soggetto imprenditorialmente evoluto". Era dipinto, piuttosto, come una figura posta dietro ad una scrivania, piegato sulle sue sudate carte.
Un Leopardi del foro praticamente.
Comprendere, poi, come quelle carte potessero arrivare sulla scrivania restava un mistero!
Eh sì … perché per avere tra le mani delle carte sulle quali far trapelare la propria scienza forense, sono necessari – a monte – dei clienti che le forniscano.
Ricercare i clienti attraverso più o meno velate forme di auto-propaganda però era vietato, con il risultato che le chances di successo per un giovane avvocato erano direttamente proporzionali al numero di generazioni forensi che lo precedevano !!!

Per fortuna con il passare del tempo, il tradizionale atteggiamento di chiusura dimostrato dall’ordinamento professionale italiano si è andato via via smorzando e da una posizione restrittiva [4] che vietava recisamente qualsiasi forma di pubblicità dell’attività professionale si passò al concetto di pubblicità informativa [5].
L’impostazione del Codice Deontologico cominciava a mutare: se prima si parlava di divieto di qualsiasi forma di pubblicità, in seguito si cominciarono ad indicare tutta una serie di informazioni che l’avvocato poteva fornire circa l’esercizio della propria attività.

Ebbene, nonostante fossero stati fatti numerosi passi in avanti, per alcuni la pubblicità dell’avvocato continuava ad essere considerata una indecorosa attività mercantile, tanto che nel 2012 il Consiglio Nazionale Forense si rese autore di un clamoroso passo in dietro.
Con la riforma dell’ordinamento professionale forense [6], infatti, si esclusero i prezzi dalle informazioni che il legale poteva liberamente fornire al pubblico.
L’avvocato, in altri termini, poteva esplicitare in quali campi del diritto fosse specializzato, ma non poteva assolutamente pubblicizzare i costi.

Tale tentativo di ritorno al passato non riuscì e l’atteggiamento di chiusura dimostrato dal Consiglio Nazionale Forense, fu sanzionato anche dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato [7].
Ed infatti, tutti sanno che l’economia è al centro di ogni valutazione. Per concorrere sul mercato è necessario promuoversi e per farlo è necessario parlare anche del "vile denaro".
La natura restrittiva della posizione assunta dal CNF verso la pubblicità dell’avvocato si poneva, inoltre, in aperto contrasto con i principi comunitari della concorrenza e del libero mercato [8], di talché l’Antitrust multò pesantemente il CNF [9] e la condanna (benché pecuniariamente ridotta) fu poi confermata sia dal TAR [10] che dal Consiglio di Stato [11].

Dopo la sanzione, il Consiglio Nazionale Forense  - quasi costretto ad adeguarsi ai tempi che corrono – ha adottato il nuovo testo dell’art. 35 del Codice Deontologico Forense.
Attualmente le norme che disciplinano la pubblicità dell’avvocato sono – principalmente – l’art. 17 e l’art. 35 del Codice Deontologico.
L’art. 17, rubricato  «Informazione sull’esercizio della professione» dispone quanto segue:
  1. È consentita all’avvocato, a tutela dell’affidamento della collettività, l’informazione sulla propria attività professionale, sull’organizzazione e struttura dello studio, sulle eventuali specializzazioni e titoli scientifici e professionali conseguiti.
  2. Le informazioni diffuse pubblicamente con qualunque mezzo, anche informatico, debbono essere trasparenti, veritiere, corrette, non equivoche, non ingannevoli, non denigratorie o suggestive e non comparative.
  3. In ogni caso le informazioni offerte devono fare riferimento alla natura e ai  limiti dell’obbligazione professionale.
Prima della citata riforma, l’art. 35 rubricato «dovere di corretta informazione» conteneva due commi (il nono ed i decimo) del seguente tenore:
  1. L’avvocato può utilizzare, a fini informativi, esclusivamente i siti web  con domini propri senza reindirizzamento, direttamente riconducibili a sé, allo studio legale associato o alla  società di avvocati alla quale partecipi, previa comunicazione al Consiglio dell’Ordine di appartenenza della forma e del contenuto del sito stesso.
  2. L’avvocato è responsabile del contenuto e della sicurezza del proprio sito, che non può contenere riferimenti commerciali o pubblicitari sia mediante  l’indicazione diretta  che mediante strumenti di collegamento interni o esterni al sito.
I commi in parola limitavano di fatto le possibilità dell’avvocato di "farsi pubblicità" sul web, in quanto gli unici siti utilizzabili erano quelli con domini propri e senza reindirizzamento.
A livello pratico, ciò comportava il divieto assoluto per l’avvocato di "sponsorizzarsi" sui social network. L’unica cosa che il legale poteva fare era pubblicare i contenuti afferenti alla propria attività professionale sul proprio sito web.
Non era possibile "postare" detti contenuti su facebook, twitter o linkedin. In tal modo, infatti, l’avvocato avrebbe utilizzato un sito web avente un dominio diverso dal proprio ed appartenente alla società esterna titolare del social network. Non era possibile nemmeno "creare dei link", atteso che così facendo si dava luogo al vietato "reindirizzamento" del post.

Con la riforma questi due commi sono stati abrogati ed attualmente l’art. 35 del codice deontologico statuisce che:
  1. L’Avvocato che  dà informazioni sulla propria attività professionale, quali che siano i mezzi utilizzati  per rendere le stesse, deve rispettare i doveri di verità , correttezza, trasparenza, segretezza e riservatezza, facendo in ogni caso riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale.
  2. L’avvocato non deve dare informazioni comparative  con altri professionisti né  equivoche, denigratorie, suggestive o che contengano riferimenti  titoli , funzioni  o incarichi non inerenti all’attività professionale.
È scomparso, dunque, ogni riferimento al tipo di sito web (con o senza reindirizzazione,) con conseguente via libera alla pubblicità sui social network e alla vendita di banner pubblicitari sul proprio sito.

Ciò detto, bisogna pur ammettere che se si dà agli avvocati – personalità quasi sempre eccentriche e talvolta prive di scrupoli – la piena libertà di auto-proclamarsi  in rete il risultato potrebbe essere anche disastroso.
In Italia non siamo ancora giunti a manifestazioni simili a quella di un avvocato tedesco, che ha ben pensato di pubblicizzare il proprio studio con una clip horror (ove la moglie uccideva il marito con a sega elettrica) e la cui scritta finale recitava «con un avvocato matrimonialista non sarebbe mai successo».
Ci è stato, però, chi, indicando tra i propri settori di attività quello degli incidenti mortali, si è proposto di assistere i propri clienti anticipando o rimborsando tutte le spese funerarie.
Ora, vero è che la libertà di espressione è tutto. Non si dimentichi però che il nuovo comma 9 dell’art. 35  richiama espressamente – quali pietre miliari dell’Avvocatura – la dignità e il decoro della professione, il cui rispetto è imprescindibile.



[1] Cfr. Delibera del Consiglio Nazionale Forense approvata il 22 gennaio 2016 (Gazzetta Ufficiale n. 102 del 3 maggio 2016) in vigore dal 2 luglio 2016.

[2] RICCIARDI, Lineamenti dell’ordinamento professionale forense, 1990, p. 335.

[3] Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 56 del 23 aprile 1991.

[4] L’art. 17 del Codice Deontologico Forense vigente nel 1997 vietava recisamente qualsiasi forma di pubblicità per l’avvocato.

[5] L’evoluzione della normativa italiana in tal senso cominciò nel 2002.

[6] Legge n. 247 del 31 dicembre 2012.

[7] Il leading case che vide contrapposti Consiglio Nazionale Forense e l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato è il noto Caso Amica Card.

[8] Art. 101 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea.

[9] Con il provvedimento n. 25154 del 22 ottobre 2014 l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha statuito che la condotta del CNF è stata perpetrata in aperta violazione dell’art. 101 del TUF, «mirando ad inibire l’impiego di un nuovo canale di diffusione delle informazioni relative all’attività professionale, anche stigmatizzando l’offerta di servizi professionali incentrata sulla convenienza economica» ed in seguito a ciò ha ritenuto applicabile al CNF una sanzione amministrativa pecuniaria di € 912.536,40.

[10] TAR, sent. n. 8778 del 01.01.2015.

[11] CdS, sent n. 1164 depositata il 22.03.2016.

Studio Legale Samperisi&Zarrelli
Produzione Riservata


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