Per la Cassazione
lasciare un dipendente inattivo e con la scrivania vuota non è mobbing se non è
provata la volontà persecutoria
Lasciare inattivo il dipendente è
mobbing? Svuotarlo delle sue mansioni obbligandolo a una forzata inattività, per umiliarlo e
farlo sentire inadeguato? È
questo il quesito affrontato dalla Cassazione in una recente sentenza [1] nella quale ha negato il diritto al
risarcimento ad un funzionario pubblico il quale lamentava che le vessazioni da
parte del suo superiore si erano concretizzate nella totale privazione di
mansioni e incarichi.
Mobbing: che cos’è?
Il mobbing consiste in una serie ripetuta
di condotte illecite con carattere
persecutorio tenute dal datore di lavoro nei confronti del lavoratore. Queste
possono consistere in maltrattamenti, umiliazioni e lesioni della sua dignità e
sono tutte rivolte a un unico fine: ostacolare la crescita professionale del
dipendente, demoralizzarlo, offenderlo ed eventualmente portarlo a dimettersi e
lasciare il posto di lavoro. L’intento del datore di lavoro è quindi unico e
identico in tutte le occasioni: quello di far soffrire la vittima e di lederne
gli interessi.
Inoltre le
condotte illecite devono essersi verificate in un lasso di tempo apprezzabile
(non si parlerebbe di mobbing, ad esempio, se i comportamenti lesivi sarebbero
limitati a pochi episodi). La durata del mobbing varia a seconda della gravità
e alla frequenza delle offese.
Nella sentenza in commento la Cassazione ha ribadito
quanto già affermato in precedenti decisioni e cioè che, ai fini della
configurabilità del mobbing rilevano i seguenti elementi:
·
una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti
se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti in
essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel
tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto;
·
l'evento
lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
·
il nesso
eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima
nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità;
·
l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di
tutti i comportamenti lesivi.
Mobbing e
demansionamento
Un altro caso
di mobbing assai frequente e affine a quello della privazione di mansioni è
quello del demansionamento,
ossia quando si costringe il dipendente a svolgere mansioni di livello
inferiore rispetto a quelle per cui è stato assunto. Come detto, ciò deve
avvenire in più situazioni e con il medesimo intento, non solo occasionalmente.
La giurisprudenza attribuisce significativo valore alla durata del demansionamento e richiede un ampio dislivello tra le
mansioni precedentemente svolte e quelle successivamente assegnate.
Certamente, in ordine al caso trattato dalla
sentenza in commento non può non compiersi una valutazione ulteriore. Nel caso
del dipendente pubblico lasciato inattivo, se anche non possono ritenersi integrati,
a giudizio della Corte di Cassazione, i presupposti per la configurabilità del
mobbing, di certo devono valutarsi ulteriori profili di responsabilità da parte
del dirigente: in primo luogo la violazione del principio di buon andamento della
pubblica amministrazione, nonché in possibili profili di responsabilità erariale.
Studio Legale Samperisi&Zarrelli
Produzione riservata
Approfondimento già pubblicato in "La legge per tutti business" al seguente link
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