Sono in arrivo, per molti lavoratori del
pubblico impiego, le tanto attese riposte sulla propria condizione di
precarietà.
A rispondere sarà direttamente la Corte
Europea, il cui primo pronunciamento avverrà a giorni: precisamente il 13
luglio p.v.
Procediamo con ordine.
Come ormai noto, la stipula dei contratti
a termine deve essere soggetta a dei limiti, superati i
quali si determina un abuso ai danni del lavoratore. Abuso che
deriva dalla circostanza che in questi casi il dipendente, vincolato dalle
continue proroghe, resta "prigioniero" del suo
stesso contratto a termine, finendo con l’essere "condannato"
a vivere una situazione di eterna precarietà, alla quale non
sarebbe assoggettato laddove, ad esempio, alla normale conclusione del rapporto
di lavoro potrebbe cercare impiego altrove.
La Pubblica
Amministrazione, dunque, non può ricorrere al rinnovo dei contratti a tempo
determinato per oltre 36 mesi. Al contrario si creerebbe per il
dipendente una illegittima situazione di precariato vietata
non solo dalla legge italiana, ma anche da quella dell’Unione Europea [1].
Detta situazione di illegittimità non è
sfuggita alla Corte di Cassazione [2] che (pronunciandosi
anche a Sezioni Unite) ha stabilito che il pubblico dipendente cui
sia stato rinnovato per oltre 36 mesi il contratto a tempo determinato ha
diritto al risarcimento del danno. Danno che si compone di due
elementi:
- un’indennità forfettaria da
quantificare tra un minimo di 2,5 mensilità ed un massimo
di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di
fatto [3];
- un
risarcimento per la c.d. perdita di chances (cioè
per la perdita della possibilità, da parte del lavoratore, di vedere
migliorare la propria situazione).
Secondo l’orientamento attualmente
maggioritario non spetterebbe, invece, al precario statale la c.d. stabilizzazione,
il diritto – cioè – ad ottenere la conversione del proprio
contratto di lavoro da contratto a termine a contratto a tempo indeterminato.
Secondo questa tesi, infatti, la legge
italiana [4] vieterebbe ai giudici di operare detta
conversione. Se non ci fosse detto divieto – sostengono i fautori di questo
orientamento – sarebbe minato un importante principio costituzionale, che
impone alle pubbliche amministrazioni di assumere personale solo a seguito
di procedure selettive [5]. In altri termini, chi
sostiene questa tesi ritiene che se fosse possibile trasformare il contratto a
termine in contratto a tempo indeterminato, sarebbe facile per
la Pubblica Amministrazione eludere l’obbligo di predisporre un bando
di concorso per l’accesso al pubblico impiego.
Ebbene, alcuni giudici non sono d’accordo
e ritengono che il divieto di stabilizzazione per i precari statali
sia illegittimo.
Ed infatti:
- Il Tribunale
di Foggia con ordinanza del 27 ottobre 2016 ha
sollevato questione di illegittimità costituzionalità delle norme che
impediscono la stabilizzazione del rapporto per i precari del settore
sanitario, richiamando la giurisprudenza della Corte di giustizia.
- Con ordinanza
del 5 settembre 2016 il Tribunale di Trapani ha
disposto il rinvio pregiudiziale in ordine all’adeguatezza e dissuasività delle
sanzioni previste per l’abuso nella stipula di contratti a tempo determinato
nel comparto della scuola.
- Dello
stesso avviso sono altri Tribunali della Penisola e, da ultimo, anche il Tribunale
di Termini Imerese con ordinanza del 7 giugno 2017 ha
sollevato una questione di illegittimità costituzionale, rilevando la
contrarietà delle norme italiane rispetto alla Direttiva UE 1999/70.
E le prime risposte da parte della Corte
Europea non tarderanno ad arrivare.
La discussione sull’istanza del Tribunale
di Trapani è fissata – come da comunicazione della Corte Europea - per il 13
luglio 2017.
Ciò posto, cerchiamo di comprendere perché
anche secondo molti giudici italiani (che si sono appunto
rivolti alla Corte Europe) il divieto di
stabilizzazione per i precari statali è illegittimo.
In primo luogo perché un analogo divieto
non vale per il lavoratore privato. La conversione del rapporto di
lavoro - vietata nel settore del lavoro pubblico - è, infatti,
perfettamente applicabile nell’ambito del lavoro privato, ove se il contratto a
termine prosegue oltre il trentaseiesimo mese, esso sarà automaticamente
convertito in contratto a tempo indeterminato.
Nel settore privato, quindi, il lavoratore
(che sia vittima del medesimo abuso subito del
lavoratore pubblico) è destinatario di una tutela sicuramente maggiore in
quanto potrà ottenere non solo "il posto fisso di lavoro",
ma anche un’indennità forfettaria. Detta indennità, che abbiamo visto
essere l’unica certezza per il precario pubblico, rappresenta solo la
"ciliegina sulla torta" per il precario privato. Per quest’ultimo,
infatti, l’indennità forfettaria non rappresenta l’elemento fondamentale del
rimedio, ma è di mero contorno e serve solo a ripagarlo per l’attesa del tanto
anelato posto fisso di lavoro.
Evidente, quindi, come due soggetti pur
trovandosi nella medesima situazione siano destinatari di
due trattamenti completamente differenti, sol perché appartengono a
diversi settori (il pubblico ed il privato).
E la differenza è davvero eclatante se si
considera che:
- il
lavoratore privato non deve provare assolutamente nulla per ottenere
il posto di lavoro e l’indennità forfettaria.
Basterà, infatti, dimostrare l’intervenuto superamento del trentaseiesimo
mese di precariato;
- il lavoratore
pubblico, al contrario, non solo dovrà togliersi dalla mente il
"posto fisso", ma per ricevere un risarcimento superiore
all’indennità forfettaria, dovrà fare i salti mortali. Dovrà far credere
che se la P.A. avesse bandito un concorso lui lo avrebbe superato, dovrà
sostenere (non si sa come!) che la qualità della sua vita sarebbe
migliorata. In poche parole: dovrà dimostrare l’indimostrabile.
Orbene, è pur vero che l’indennità
forfettaria prevista quale ristoro per il precario statale non è da buttar via
e tutti dovrebbero ricorrere per ottenerla. È anche vero, però, che si tratta
di poca cosa a fronte di un contratto a tempo indeterminato, l’unico idoneo a
garantire stabilità e tranquillità.
Proprio per questi motivi, i
giudici schieratisi "dalla parte del precario statale" ritengono che
l’indennità forfettaria debba essere considerata un punto di partenza e non un
punto di arrivo se si vuole garantire una tutela adeguata anche al
precario che lavora nel pubblico impiego e se davvero non si può concedere al
precario statale la stessa tutela che spetta al precario privato,
quanto meno le due tutele – pur se diverse – devono essere equivalenti.
Ciò posto - secondo questi giudici - del
tutto insufficiente si rivelerebbe l’indennità quantificata tra le 2,5 e 12
mensilità. Al precario statale, di contro, dovrebbe essere riconosciuto un
risarcimento molto superiore il cui valore dovrebbe per lo meno eguagliare
il valore economico del posto di lavoro negatogli.
I fautori di questo orientamento non si
lasciano intimidire nemmeno dai "vincoli costituzionali". Come noto,
la nostra Carta Costituzionale, sebbene si ponga in vetta ad ogni norma di
diritto è comunque destinata a soccombere di fronte al diritto dell’Unione
Europea [6], che - come abbiamo detto sopra - tutela il lavoratore
(a prescindere dal settore in cui costui presti la propria attività).
Al riguardo, questi giudici
"illuminati" fanno anche un ulteriore passo in avanti ragionando come
segue.
Come abbiamo detto sopra, nel settore
pubblico le assunzioni possono avvenire solo in forza di un pubblico
concorso e ciò è espressamente previsto dall’art. 97 della
Costituzione [7]. Quindi, prevedere la conversione
del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato, significherebbe
inevitabilmente violare detto principio. Principio che vale solo per il
pubblico impiego: nel lavoro privato, infatti, non vige la "regola del
concorso". Nulla osterebbe, quindi, all’assunzione del lavoratore privato
al superamento del trentaseiesimo mese di precariato.
Fin qui tutto chiaro. Se non fosse per un
dettaglio.
Anche per il lavoro privato vige un
importante principio costituzionale, con la differenza che - in tal caso - non
ci si è posti alcun problema a superalo, in nome di un più rilevante diritto
(quale - appunto - la stabilizzazione) spettante al lavoratore del settore
privato.
I costituzionalisti, infatti, sanno bene
che l’art. 41 della Carta Fondamentale stabilisce che «l’iniziativa
economica privata è libera». Ma se è vero
che l’iniziativa economica privata è libera, allora perché si costringe il
datore di lavoro privato ad assumere il proprio dipendente, una volta che
questi abbia superato il trentaseiesimo mese di precariato?
E soprattutto … perché l’art. 41
Cost. può essere sacrificato a favore del lavoratore privato, mentre
di sacrificare l’art. 97 Cost. a favore del precario statale non
se ne parla proprio?
Si tratta di interrogativi che fanno
riflettere e che riceveranno - a giorni - un giusto responso da parte
della Corte di Giustizia Europea.
Siamo disponibili a fornire istruzioni e
chiarimenti a chiunque fosse interessato.
[1] Direttiva 1999/70/CE del 28.06.1999.
[2] Cass. SS. UU. sentenza n. 5072 del
15.03.2016 (Conforme, ex multibus, Cass. sentenza n. 14633
del 18.07.2016).
[3] Si tratta dell’indennità di cui
all’art. 32 comma 5 della l. n. 183/2010.
[4] Art. 36 comma 5 d.lgs. n. 165/2001.
[5] Art. 97, 4 comma, Cost.: «Agli impieghi
nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi
stabiliti dalla legge».
[6] C.d. principio di premazia del diritto
comunitario. Cfr. art. 117
Cost.
[7] Art. 97, 4 comma, Cost. (cit.).
Samperisi & Zarrelli Studio Legale
Pruduzione riservata
Nessun commento:
Posta un commento