Lotta al precariato:
verso il diritto alla stabilizzazione per il dipendente statale che abbia
lavorato per oltre 36 mesi.
Forse non tutti sanno che il contratto di lavoro a tempo determinato nasce dalla volontà del
legislatore di sopperire ad esigenze produttive ed organizzative temporanee e costituisce un’eccezione
alla regola (che è quella – per l’appunto – dell’assunzione con contratto di
lavoro a tempo indeterminato).
Per questo motivo, la stipula di contratti a termine deve essere
soggetta a dei limiti, superati i
quali si determina un abuso che, in
quanto tale, deve essere sanzionato.
Più precisamente, la Pubblica Amministrazione
non può ricorrere al rinnovo dei contratti a tempo determinato per oltre 36 mesi. Al contrario si
creerebbe per il dipendente una illegittima situazione di precariato vietata non solo dalla legge italiana, ma anche da
quella dell’Unione Europea [1].
Detta situazione di illegittimità non è
sfuggita alla Corte di Cassazione [2]
che (pronunciandosi anche a Sezioni Unite)
ha stabilito che il pubblico dipendente
cui sia stato rinnovato per oltre 36 mesi il contratto a tempo determinato ha
diritto al risarcimento del danno.
Danno che deriva dalla circostanza che
in questi casi il dipendente, vincolato dalle continue proroghe, resta "prigioniero" del suo stesso contratto a
termine, finendo con l’essere "condannato" a vivere una situazione di eterna
precarietà, alla quale non sarebbe assoggettato laddove, ad esempio, alla
normale conclusione del rapporto di lavoro potrebbe cercare impiego altrove.
Quali i rimedi?
Come
abbiamo detto, i dipendenti pubblici hanno diritto al risarcimento del danno. Danno che si compone di due elementi:
- un’indennità forfettaria da quantificare tra un minimo di 2,5 mensilità ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto [3];
- un risarcimento per la c.d. perdita di chances, (cioè per la perdita della possibilità, da parte del lavoratore, di vedere migliorare la propria situazione).
L’indennità forfettaria viene attribuita senza che
il lavoratore sia chiamato a provare alcunché. Ed infatti, sarà sufficiente dimostrare
di aver accumulato più di 36 mesi, anche non continuativi, alle dipendenze della P.A. con contratti a tempo determinato.
Per ottenere, invece, il risarcimento del danno per
la c.d perdita di chances è richiesto
l’assolvimento, da parte del lavoratore, di un pesante (e verrebbe da dire
quasi impossibile) onere probatorio. Costui dovrà, infatti, dimostrare che se,
ad esempio, l’Amministrazione avesse regolarmente indetto un concorso egli sarebbe risultato
vincitore o, comunque, che talune possibilità di impiego alternative siano sfumate a causa del rapporto a termine
instaurato con l’Amministrazione.
Ne consegue che il precario statale avrà automatico riconoscimento all’indennità forfettaria, ma ottenere un
risarcimento maggiore sarà quasi
impossibile.
Non spetterebbe, inoltre, al precario statale la
c.d. stabilizzazione, il diritto – cioè – ad
ottenere la conversione del proprio contratto di
lavoro da contratto a termine a contratto a tempo indeterminato.
Secondo l’orientamento attualmente maggioritario,
infatti, la legge italiana [5] vieterebbe ai giudici di operare
detta conversione. Se non ci fosse detto
divieto – sostengono i fautori di questo orientamento – sarebbe minato un
importante principio costituzionale, che impone alle pubbliche amministrazioni
di assumere personale solo a seguito di procedure selettive [6]. In altri termini, chi sostiene questa tesi ritiene che se fosse possibile trasformare il
contratto a termine in contratto a tempo indeterminato, sarebbe facile per la Pubblica
Amministrazione eludere l’obbligo di predisporre un bando di concorso per l’accesso al pubblico impiego.
Ebbene, alcuni giudici non sono d’accordo e
ritengono che il divieto di stabilizzazione per i precari statali sia illegittimo.
Vediamo perché.
In primo luogo perché un analogo divieto non vale per
il lavoratore privato. La conversione del
rapporto di lavoro - vietata nel settore del lavoro pubblico - è, infatti, perfettamente applicabile nell’ambito
del lavoro privato, ove se il contratto a termine prosegue oltre il trentaseiesimo mese, esso sarà automaticamente convertito in contratto a tempo
indeterminato.
Nel settore privato, quindi, il lavoratore (che sia
vittima del medesimo abuso subito del lavoratore pubblico) è destinatario di
una tutela sicuramente maggiore in quanto potrà ottenere non
solo "il posto fisso di lavoro", ma anche un’indennità forfettaria. Detta indennità, che abbiamo visto essere l’unica
certezza per il precario pubblico, rappresenta solo la "ciliegina sulla
torta" per il precario privato. Per quest’ultimo, infatti, l’indennità
forfettaria non rappresenta l’elemento fondamentale del rimedio, ma è di mero
contorno e serve solo a ripagarlo per l’attesa del tanto anelato posto fisso di
lavoro.
Evidente, quindi, come due soggetti pur trovandosi
nella medesima situazione siano destinatari di due trattamenti completamente differenti, sol perché appartengono a
diversi settori (il pubblico ed il privato).
E la differenza è davvero eclatante se si considera
che:
- il lavoratore privato non deve provare assolutamente nulla per ottenere il posto di lavoro e l’indennità forfettaria. Basterà, infatti, dimostrare l’intervenuto superamento del trentaseiesimo mese di precariato;
- il lavoratore pubblico, al contrario, non solo dovrà togliersi dalla mente il "posto fisso", ma per ricevere un risarcimento superiore all’indennità forfettaria, dovrà fare i salti mortali. Dovrà far credere che se la P.A. avesse bandito un concorso lui lo avrebbe superato, dovrà sostenere (non si sa come!) che la qualità della sua vita sarebbe migliorata. In poche parole: dovrà dimostrare l’indimostrabile.
Orbene, è pur vero che l’indennità forfettaria
prevista quale ristoro per il precario statale non è da buttar via e tutti
dovrebbero ricorrere per ottenerla. È anche vero, però, che si tratta di poca
cosa a fronte di un contratto a tempo indeterminato, l’unico idoneo a garantire
stabilità e tranquillità.
Proprio per questi motivi, i giudici schieratisi
"dalla parte del precario statale" ritengono che l’indennità
forfettaria debba essere considerata un punto di partenza e non un punto di
arrivo se si vuole garantire una tutela adeguata anche al precario che lavora nel pubblico impiego e
se davvero non si può concedere al precario statale la stessa tutela che spetta al precario privato, quanto meno le due
tutele – pur se diverse – devono essere equivalenti.
Ciò posto, del tutto insufficiente si rivelerebbe
l’indennità quantificata tra le 2,5 e 12 mensilità. Al precario statale, di
contro, dovrebbe essere riconosciuto un risarcimento molto superiore il cui
valore dovrebbe per lo meno eguagliare il valore economico del posto di lavoro negatogli.
I fautori di questo orientamento non si lasciano
intimidire nemmeno dai "vincoli costituzionali". Come noto, la nostra
Carta Costituzionale, sebbene si ponga in vetta ad ogni norma di diritto è
comunque destinata a soccombere di fronte al diritto dell’Unione Europea [6], che - come abbiamo detto sopra - tutela il
lavoratore (a prescindere dal settore in cui costui presti la propria
attività).
Al riguardo, questi giudici "illuminati"
fanno anche un ulteriore passo in avanti ragionando come segue.
Come abbiamo detto sopra, nel settore pubblico le assunzioni possono avvenire solo in forza di un pubblico concorso e ciò è espressamente previsto dall’art. 97 della Costituzione [7]. Quindi, prevedere la conversione del contratto a termine in contratto a
tempo indeterminato, significherebbe inevitabilmente violare detto principio. Principio che vale solo per il pubblico
impiego: nel lavoro privato, infatti, non vige la "regola del
concorso". Nulla osterebbe, quindi, all’assunzione del lavoratore privato
al superamento del trentaseiesimo mese di precariato.
Fin qui tutto chiaro. Se non fosse per un dettaglio.
Anche per il lavoro privato vige un importante principio costituzionale,
con la differenza che - in tal caso - non ci si è posti alcun problema a superalo,
in nome di un più rilevante diritto (quale - appunto - la stabilizzazione) spettante
al lavoratore del settore privato.
I costituzionalisti, infatti, sanno bene che l’art. 41 della Carta Fondamentale stabilisce che «l’iniziativa
economica privata è libera». Ma se è vero che l’iniziativa economica
privata è libera, allora perché si costringe il datore di lavoro privato
ad assumere il proprio dipendente, una volta che questi abbia superato il
trentaseiesimo mese di precariato?
E soprattutto … perché l’art. 41
Cost. può essere sacrificato a favore del lavoratore privato, mentre di sacrificare l’art. 97 Cost. a favore del precario
statale non se ne parla proprio?
Si tratta di interrogativi che fanno riflettere ed ai quali non è facile
dare una risposta, tanto che molti giudici nazionali [8] si sono rivolti alla Corte
di Giustizia Europea ed attualmente si è in attesa di un responso.
In tale attesa, cari precari statali
ricorrete pure per ottenere la famosa indennità
forfettaria, ma non rinunciate al sogno della stabilizzazione che potrebbe presto trasformarsi in un vostro
indiscutibile diritto.
Siamo disponibili a fornire istruzioni e
chiarimenti a chiunque fosse interessato.
[1]
Direttiva 1999/70/CE del 28.06.1999.
[2]
Cass. SS. UU.
sentenza n. 5072 del 15.03.2016 (Conforme,
ex multibus, Cass. sentenza n. 14633
del 18.07.2016).
[3] Si tratta dell’indennità di cui all’art. 32 comma 5 della l. n. 183/2010.
[4] Art.
36 comma 5 d.lgs. n. 165/2001.
[5] Art. 97, 4 comma, Cost.: «Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante
concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge».
[6] C.d. principio di premazia del diritto comunitario. Cfr.
art. 117 Cost.
[7] Art.
97, 4 comma, Cost. (cit.).
[8] ex multibus, Trib. di Trapani,
ordinanza del 05.09.2016; Trib. di Foggia, ordinanza del 26.10.2016;
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