Se l’azienda
impone al dipendente di svolgere determinate attività nel pre e nel post turno,
il tempo necessario a compiere le stesse deve essere retribuito.
Il mio datore di lavoro mi obbliga ad
essere presente sul posto di lavoro 5 minuti prima dell'inizio del turno
lavorativo e 5 minuti dopo la fine dello stesso. La giustificazione è che in quei
5 minuti ci si deve "loggare/sloggare"
al computer aziendale. Quei 5 minuti (20 al giorno) non sono retribuiti.
Vi chiedo: se il datore di lavoro mi obbliga ad essere
presente in quei 20 minuti, tempo in cui io eseguo le direttive dell’azienda ed
in più sono sottoposto al potere sanzionatorio e disciplinare del datore di lavoro, ho ragione
se chiedo il pagamento di quei minuti?
La
dimensione temporale è uno degli
aspetti più importanti della prestazione lavorativa. A ben vedere, infatti, il
lavoro subordinato consiste proprio nello scambio tra la retribuzione e la disponibilità
di tempo.
In
tal senso, la contrapposizione di interessi tra datore di lavoro e dipendenti
ha, da sempre, ingenerato molti dibattiti.
Proprio
per questo motivo, il tema dell’orario di
lavoro è stato largamente sottratto all’autonomia delle parti (e, quindi,
alle "libere" decisioni prese ed imposte da parte del datore di
lavoro) ed è stato sottoposto a precisi vincoli
sia da parte della legge che da
parte della contrattazione collettiva
[1].
Ebbene,
la legge [2], con l’espressione «orario di lavoro», si
riferisce a «qualsiasi periodo in cui il lavoratore resta a disposizione del proprio
datore di lavoro, nell’esercizio delle sue attività lavorative o delle sue
funzioni».
Sulla base di tale definizione, tuttavia, non sempre è agevole capire se
una determinata attività (quale, nel caso del lettore, la "loggatura" al
computer aziendale) rientri o meno nell’orario di lavoro che – in quanto tale –
dovrà essere retribuito.
Ciò posto, bisognerà far riferimento al contratto di settore (Ccnl) che
– però – il più delle volte, facendo
salvi gli accordi aziendali in
materia, nulla prevede sullo specifico argomento.
A tal riguardo, infatti, non può essere sottaciuta la possibilità per
l’azienda – tramite la previsione di clausole c.d. elastiche o flessibili
– di variare la collocazione temporale o anche la quantità di ore della prestazione lavorativa, fermo restando
che la stessa debba comunque essere
retribuita nella sua interezza.
Ciò detto, qualora l’azienda imponga
ai propri dipendenti il rispetto di determinate
tempistiche ai fini dello svolgimento di determinate attività, ne consegue che anche il tempo necessario per
svolgere le stesse rientra nell’orario
di lavoro che – quindi – dovrà essere retribuito.
Cerchiamo di fare ulteriore chiarezza.
Come si evince dal quesito posto dal lettore, l’azienda gli impone
l’obbligo di essere presente sul posto di lavoro 5 minuti prima dell'inizio del turno e 5
minuti dopo la fine dello stesso, al fine di compiere – prima e dopo lo
svolgimento dell’attività lavorativa "vera e propria" – determinate attività propedeutiche e susseguenti alla
stessa (nella specie di c.d. "loggatura/sloggatura").
I risvolti economici della questione non sono irrilevanti: atteso, infatti,
che nel caso di specie i turni giornalieri sono due (mattina e pomeriggio), dette
attività richiedono tempistiche di 20
minuti al giorno che non vengono retribuiti.
La domanda che, a questo punto, pone il lettore è la seguente: il tempo che il dipendente impiega per
svolgere le c.d. attività preparatorie e susseguenti allo svolgimento
dell’attività lavorativa deve essere retribuito?
Ebbene, al fine di valutare se il tempo occorrente per tali operazioni
debba essere retribuito o meno occorre distinguere due diverse ipotesi.
1) La prima ipotesi è quella in cui sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e/o il modo per lo
svolgimento delle attività c.d. "preparatorie e successive" . In tali casi, le relative operazioni -
secondo la giurisprudenza dominante - fanno parte degli atti di mera diligenza preparatoria e susseguente allo svolgimento
della prestazione lavorativa. Dette attività, come tali, non devono essere
retribuite.
2) La seconda ipotesi - che è quella che fa al caso del lettore - invece,
si verifica quando il lavoratore non ha
alcuna facoltà di scelta in quanto
le suddette attività sono dirette dal datore
di lavoro, che ne disciplina il tempo
ed il modo di esecuzione, ovvero si
tratti di operazioni di carattere
strettamente necessario ed obbligatorio per lo svolgimento dell'attività
lavorativa.
In tali casi, il tempo necessario
per eseguire le attività preparatorie e successive allo svolgimento
dell’attività lavorativa rientra nell’orario di lavoro effettivo, che in quanto
tale dovrà essere retribuito.
Tale soluzione è assolutamente conforme al dettato della legge, che
– come detto sopra – con l’espressione «orario di lavoro» si riferisce a «qualsiasi
periodo in cui il lavoratore resta a
disposizione del proprio datore di lavoro, nell’esercizio delle sue
attività lavorative o delle sue funzioni».
Ebbene, se anche le attività del "pre e post turno" sono (come riferito) eterodirette dal datore
di lavoro, ne consegue che anche il tempo necessario ad eseguire le stesse
andrà valutato alla stregua di orario
effettivo di lavoro, computabile - quindi - ai fini del calcolo della retribuzione.
Ed infatti, alla luce della normativa vigente, il discrimen tra ciò che è orario di lavoro
(oggetto, dunque, di retribuzione) e ciò che non lo è consiste nell’eterodirezione, cioè nella sottoposizione del lavoratore
all’esercizio del potere organizzativo, direttivo e di controllo da parte del
datore di lavoro. Sottoposizione che, nel caso del lettore, è ancor più evidente
se sol si consideri la riferita soggezione
al potere disciplinare ed alle
correlative sanzioni previste.
Ciò posto, ne consegue che qualora
l’azienda imponga ai dipendenti di svolgere determinate attività prima che
inizi il turno e dopo che lo stesso si concluda e ne imponga altresì i
tempi (5 minuti prima e dopo) ed i modi
(secondo predeterminate direttive), allora il tempo necessario per svolgere
dette attività rientra nell’orario di lavoro da retribuire, in quanto attività
ausiliaria e susseguente al corretto svolgimento dell’attività lavorativa
stessa.
L’assunto è peraltro coerente con i precedenti giurisprudenziali
espressi con specifico riferimento alla tematica del c.d. tempo di vestizione.
Il tempo di vestizione (anche noto come "tempo tuta") è il
tempo che il dipendente impiega per indossare (prima del turno) e poi togliere
(a fine turno) la divisa o gli abiti di lavoro.
Come nel caso di specie, molte volte, i datori di lavoro si sono
determinati a non retribuire il
tempo che dipendenti impiegavano a tal fine.
Al riguardo, la Corte di Cassazione ha affermato che la nozione di
"effettiva prestazione" deve interpretarsi nel senso che «siano da
ricomprendere nelle ore di lavoro effettivo, come tali da retribuire, anche le attività preparatorie o successive
allo svolgimento dell'attività lavorativa, purché eterodirette dal datore di lavoro, fra le quali deve
ricomprendersi anche il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale,
qualora il datore di lavoro ne disciplini il tempo ed il luogo di esecuzione» [3].
D’altronde, nello specifico caso del lettore, ragionare diversamente
porterebbe a conseguenze paradossali e tali da determinare uno squilibrio tra
datore di lavoro e dipendenti, atteso che questi ultimi potrebbero subirebbe
solo delle eventuali conseguenze negative (sanzioni disciplinari) dallo svolgimento
di una prestazione lavorativa, che – però – non è considerata tale dal punto di
vista retributivo.
Ciò posto, il lettore avrà sicuramente diritto a richiedere il pagamento
dell’intero orario di lavoro (ivi
compresi i 5 minuti di c.d. pre e post turno). Viceversa e, dunque, in mancanza
della correlativa retribuzione il dipendente non dovrebbe essere assoggettato
nemmeno al potere disciplinare del datore di lavoro.
[1] La fonte di
regolamentazione della materia è il D. Lgs. n. 66 del 2003 che ha recepito la
direttiva europea n. 2000/34/CE. Notevole importanza assumono, inoltre, le
disposizioni dei contratti collettivi per i rispettivi ambiti di applicazione.
[2] Art. 1, co. 2, lett. a), D. Lgs n. 66/2003.
[3] Cass.
Civ., sez. lav. sent. n. 1352 del 26.01.2016; Cass. Civ. sez. lav. n.
15492 del 02.07.2009; conforme: Cass. Civ. sez. lav. n. 19273 del
08.09.2006.
Samperisi&Zarrelli
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