Lo Stato italiano lavora con fatica e scarsi risultati per abbreviare la durata dei processi civili e limitare le condanne inflitte dalla Corte Europea dei Diritti dell'uomo per la violazione dell'art. 6 della CEDU[1], con il quale i Paesi aderenti si impegnano ad assicurare la definizione dei giudizi in tempi ragionevoli.
In ossequio all'impegno assunto con la Convenzione, nel 2001 e a complemento necessario dello sforzo riformatore, l'Italia ha adottato - sebbene con un ritardo di 46 anni - nel proprio sistema interno un procedimento volto ad indennizzare il cittadino "vittima" di un processo eccessivamente ed irragionevolmente lungo, dirottando verso i giudici nazionali quei ricorsi prima rivolti alla Corte europea dei diritti dell'uomo.
Obiettivo primario della Convenzione è quello di assicurare che gli Stati aderenti, qualora non rispettosi del dettato dell'art. 6 anzidetto, adottino dei rimedi interni idonei a consentire agli interessati di conseguire un ristoro per l'eccessiva durata del giudizio, senza necessità di adire i giudici di Strasburgo.
Come detto, tale rimedio è stato introdotto nell'ordinamento nazionale con la legge n. 89 del 2001, nota come Legge Pinto dal nome del senatore primo firmatario del disegno di legge.
I risultati dell'auspicato intervento, tuttavia, si sono rivelati disastrosi.
Per la finanza pubblica: secondo i dati riportati dal Governo, nel 2015 il debito arretrato per liquidazioni ex legge Pinto era pari a 456 milioni di euro.
Per la giustizia: l'effetto immediato dell'adozione del rimedio è stata la devoluzione alle Corti d'Appello di un consistente contenzioso, con l'effetto di aggravare i tempi delle decisioni in appello ed il flusso dei ricorsi alla Corte di Strasburgo è persino aumentato avendo addirittura ampliato le occasioni per ricorrere.
Infatti un numero crescente di ricorsi alla Corte europea dei diritti dell'uomo riguarda proprio l'eccessiva durata del giudizio di riparazione e le lungaggini nella liquidazione dell'indennizzo riconosciuto dalla Corte d'Appello.
A causa delle dette criticità il legislatore è intervenuto prima nel 2012 modificando i presupposti per l'indennizzo e il procedimento e poi nel 2015 - per ridurre gli indennizzi- subordinando la tutela indennitaria alla dimostrazione della parte di avere esperito tutti i rimedi acceleratori consentiti nel giudizio presupposto.
Con la riforma del 2012 il legislatore ha definito tollerabile la durata di un giudizio, articolato su due gradi di merito ed uno di legittimità, che sia concluso entro sei anni, lasciando tuttavia irrisolta la valutazione di tollerabilità o meno di un processo strutturato in un unico grado e tra questi quella dello stesso procedimento indennitario ex legge Pinto.
L'intervento riformatore ha dunque posto ulteriori dubbi sulla legittimità della normativa nazionale, come rilevato in ben sei ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale sollevate dalla Corte d'Appello di Firenze che ha censurato l'art. 2 della legge 89/20011.
Secondo la Corte fiorentina, le soglie stabilite dalla riforma del 2012 dovevano applicarsi a qualunque processo di cognizione e dunque anche allo stesso procedimento regolato dalla stessa legge Pinto.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 36 del 19 febbraio 2016, ha stabilito che:
- il termine di tollerabilità di sei anni debba intendersi riferito ai soli giudizi articolati in due gradi di merito ed uno di legittimità;
- i termini di durata ragionevoli devono intendersi fissati in tre anni per il primo grado, due per il secondo ed un anno per il giudizio di legittimità;
- al processo per equo indennizzo ex legge Pinto non può ritenersi applicabile il termine di tollerabilità di tre anni previsto dall'art.2 comma 2bis della stessa legge in quanto si vanificherebbe la sua finalità.
Con riguardo a tale ultimo aspetto la Consulta ha precisato che ritenere ragionevole la durata di tre anni per il giudizio di equo indennizzo contrasterebbe con l'art. 111, comma 2 e con l'art. 117, comma 1 Cost. con riferimento all'art. 6 della Cedu e significherebbe vanificare ogni finalità della legge stessa.
La decisione della Corte Costituzionale relativamente alla durata del giudizio di equa riparazione impone alcune considerazioni che costituiscono anche un monito per il legislatore: se oggi la durata triennale è stata giudicata inadeguata per il giudizio regolato dalla legge Pinto, è possibile che in futuro il dubbio di costituzionalità possa investire altri procedimenti caratterizzati da analoghe esigenze di rapida definizione.
[1] art. 6, par. 1, Cedu prevede che ogni persona "ha diritto a che la causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente ed imparziale, costituito per legge...".
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