Per ottenere il
cambio di sesso all’anagrafe non è più obbligatoria l’operazione chirurgica per
l’adeguamento degli organi sessuali
Tutti vorrebbero un
corpo "all’altezza" dei propri desideri.
Solo che certe volte non bastano le diete
o la palestra e non è sufficiente
nemmeno ricorrere alla sola chirurgia
plastica.
Talvolta la
trafila è molto più lunga. La strada è molto più tortuosa e passa attraverso la
via dei Tribunali.
Non stiamo
parlando di chi ha qualche chilo di
troppo e nemmeno di chi si sente a disagio nel mostrare il profilo
"dantesco" del proprio naso.
Non ci riferiamo a chi desidera labbra
più carnose e neanche a chi vorrebbe cancellare i segni dell’età dal proprio volto.
Stiamo parlando di
chi "soffre" di disforia di
genere. Di chi, cioè (tralasciando i termini tecnici) non si riconosce nel proprio sesso di nascita.
Il fenomeno della transessualità è una realtà nella
società contemporanea.
Una realtà che,
ultimamente (e senza doppi sensi), ha cambiato veste: se prima, la
transessualità era associata ad emarginazione e vita di strada, adesso detta
tematica si pone al centro del dibattito giuridico.
Si parla, al
riguardo del «diritto ad una diversa
identità di genere», che prescinde dalla componente biologica.
Un diritto
innegabile, ma difficile "da
realizzare", poiché – inutile far finta di niente – per alcuni è ancor più
difficile da comprendere.
La materia è
regolata da una legge del 1982 [1],
che ha autorizzato il cambiamento (definito «rettificazione») del proprio sesso
anagrafico.
Quando parliamo di
rettificazione di sesso anagrafico
ci riferiamo alla possibilità che un soggetto possa cambiare il proprio nome ed il proprio sesso sui suoi documenti (carta
di identità, tessera elettorale, patente etc).
Al riguardo, la
legge citata stabilisce che «la
rettificazione si fa in forza di sentenza
del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato
nell’atto di nascita a seguito di
intervenute modificazioni dei suoi caratteri
sessuali».
E fin qui nulla
di, poi, così complicato.
Un successivo
intervento legislativo [2] ha,
tuttavia, precisato che tale cambiamento si realizza «mediante trattamento medico-chirurgico
(…) quando risulta necessario un adeguamento ai caratteri sessuali».
Detto intervento
legislativo ha, quindi, subordinato la modificazione del proprio sesso anagrafico (e cioè – come
precisato sopra - il cambio di sesso e nome sui propri documenti) alla necessità di sottoporsi (oltreché alla trafila in
Tribunale) anche ad un intervento
chirurgico. Intervento chirurgico che data la "delicatezza" della
"zona trattata" non può definirsi proprio una passeggiata,
concretizzandosi in un’operazione che gli addetti ai lavori definiscono «demolitiva» in un caso e di «sterilizzazione chimica» nell’altro.
Il dato normativo,
dunque, ha reso la procedura per il cambio di sesso anagrafico lunga e
complicata, prevedendo: dapprima una diagnosi
psicologica di disforia di genere (diagnosi
preceduta da una lunga psicoterapia
accompagnata dall’assunzione di ormoni);
la
successiva richiesta ad un Tribunale
per ottenere l’autorizzazione all’intervento chirurgico e solo in seguito, ad
operazione avvenuta, un’ulteriore istanza
al giudice per conseguire il – tanto anelato – cambiamento dei documenti.
Verrebbe da dire, tutta
questa trafila per cambiare un pezzo di carta ?!
Eppure fino a non
molto tempo fa è stato così.
Per rendere le
cose un po’ più semplici è intervenuta di recente la giurisprudenza, la quale
ha statuito che per ottenere il cambio
di sesso all’anagrafe non è più
necessario l’intervento chirurgico di adeguamento degli organi sessuali.
Lo ha stabilito la
Corte di Cassazione [3] chiamata a
pronunciarsi su una vicenda molto particolare. La Cassazione, infatti, ha esaminato il caso di una persona transessuale che era stata
autorizzata dal Tribunale all’intervento chirurgico, ma aveva poi cambiato idea
e, nonostante avesse rinunciato a sottoporsi all’operazione, chiedeva comunque
la rettificazione dello stato civile.
La protagonista di questa vicenda dichiarava di non volersi più sottoporre all’intervento
chirurgico perché nel tempo aveva raggiunto un equilibrio psico-fisico e da 25 anni viveva ed era socialmente
riconosciuta come donna, anche se i suoi documenti testimoniavano il contrario.
Ebbene, la Suprema
Corte, stabilendo che l’intervento chirurgico di adeguamento degli organi
sessuali non è obbligatorio, le ha
dato ragione e lo ha fatto con parole magistrali: «il desiderio di realizzare la
coincidenza tra soma e psiche è, anche in mancanza dell’intervento di demolizione
chirurgica, il risultato di
un’elaborazione sofferta e personale della propria identità di genere
realizzata con il sostegno di trattamenti medici e psicologici corrispondenti
ai diversi profili di personalità e di condizione individuale».
In poche parole,
dunque, a detta dei giudici non può essere un intervento chirurgico a
condizionare il cambio di sesso anagrafico di una persona: l’autodeterminazione del singolo e la complessità di un percorso (personale e
già di per sé doloroso) sono elementi molto più rilevanti.
Sul tema è intervenuta
anche la Corte Costituzionale [4], che ha esaminato il caso di una donna che non aveva figli, non era
sposata ed aveva dichiarato di aver percepito, sin da bambina, un’identità di genere maschile, lamentando «frustrazione
e disagio», dovuti al fatto che nei documenti di identità risultava donna.
Ponendosi sulla
stessa scia della Cassazione anche ad avviso della Corte Costituzionale l’intervento chirurgico non è necessario
per avere la correzione degli atti anagrafici, ma è solo un mezzo per il
miglior benessere psicofisico della persona, che deve poter scegliere
liberamente.
Ed invero, una
volta stabilito il diritto al cambio di
sesso è inutile frapporre ad esso le barriere della chirurgia: il diritto
alla realizzazione della propria personalità [5] deve essere sicuramente subordinato al principio del rispetto altrui e del rispetto reciproco,
ma non di certo alla necessità di sottoporsi ad un’operazione di chirurgia
plastica.
[1] L. n. 164 del
14.04.1982.
[2] D.Lgs. n.
150/2011, articolo 31, comma 4.
[3] C. Cass. sent. n.
15138 del 20.07.2015.
[4] C. Cost. sent. n. 221 del 21.10.2015 (redatta
dal giudice Giuliano Amato).
[5] Cfr. art. 2 Cost.
Samperisi Zarrelli Studio Legale
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